martedì 1 maggio 2007

La morte dei fratelli Zoja


Angelo Mosso, nella sua Fisiologia dell'uomo sulle Alpi riporta una dettagliata relazione del dottor Filippo De Filippi, testimone oculare dell'incidente, sulla morte dei fratelli Raffaello e Alfonso Zoja. Mosso vuole, come lo stesso De Filippi cercano soprattutto di analizzare le cause fisiologiche all'origine della morte dei fratelli, ma così facendo ci propongono una dettagliata descrizione della sfortunata escursione del 26 settembre 1896 in cui morirono i due fratelli, (figli dell'illustre anatomista Luigi Zoja) la cui firma troviamo nel diario di Emma con data 4 settembre 1893 con riferimento ad un'altra gita in montagna.
    
    Come esempio fatale di questi errori nell'apprezzamento delle proprie forze, cito la morte avvenuta l'anno scorso in un'altezza di 2100 metri, di Raffaello ed Alfonso Zoja, figliuoli del professore di anatomia nell' Università pavese. Raffaello Zoja benché giovane era già conosciuto come un cultore eminente delle scienze biologiche, un ricercatore appassionato che, comprendendo i lati nuovi della scienza, trovò nuove vie per la ricerca del vero. Alfonso era un'anima gentile che nel Laboratorio del professor Golgi, isolato dal mondo, assorbito nella contemplazione della natura, aspirava a continuare la tradizione gloriosa del suo avo, il celebre anatomico Panizza.
    Nel parlare della loro morte che rimarrà per sempre ricordata con terrore negli annali dell'alpinismo, sento il dolore profondo di un amico che saluta la memoria di due giovani carissimi nei quali l'Università di Pavia e la scienza, avevano, più che la speranza, la certezza di uno splendido avvenire.
    Il dottor Filippo De Filippi, mio discepolo ed assistente della clinica chirurgica di Bologna, loro compagno di sventura in quella tristissima giornata, scrisse una lettera che riproduco come ricordo del comune cordoglio.
                         " Bologna, 3 dicembre 1896.
             " Caro Maestro,
     " Ho voluto lasciare passare qualche tempo dalla disgrazia che Ella mi ha domandato di analizzare pel suo libro, sperando che si attutisse in me la violenta impressione morale provata allora e dopo, innanzi allo strazio della famiglia infelicissima. Ma ancora oggi provo un turbamento tale nel ripensare a quelle ore che non può a meno di riuscire dannoso ad un giusto apprezzamento e ad una analisi critica rigorosa dei fatti.
     " Faccio precedere alcune note sulle condizioni fisiche e sul passato dei due giovani, fornitemi dal loro fratello, dottor Luigi Zoja.
Il primo, Raffaello, di 27 anni, era un giovane alto, magro, biondo, con viso un po' emaciato, quasi ascetico, dai tratti affinati, con espressione dolce, sempre serena. Una testa da studioso, su un corpo non molto sviluppato, senza che però si potesse dire esile. Non aveva cardiopatie: nel 1892-93 aveva sofferto una forma dispeptica gastro-intestinale con fenomeni nervosi esplicantisi in una facile stanchezza cerebrale che gli rendeva impossibile un lavoro mentale prolungato. Questi scomparvero col guarire dei disturbi digerenti, e nel '94 godeva di nuovo buona salute. Ebbe però in quest'anno una forma di intossicazione gastro-intestinale, di origine rimasta oscura, insorta acutamente con vomito, accompagnata da fenomeni di sincope allarmanti che durò pochi giorni, e dalla quale si rimise prestissimo. Nel '95 tutti e tre i fratelli s'ammalarono di scarlattina, una forma benigna, senza complicazioni renali. Raffaello faceva da anni escursioni alpine coi fratelli, salì ripetutamente fino ai 3000 metri, una volta a 3600 metri senza provare mai nessun disturbo. In una sola salita, fatta dopo aver ballato fino alle 2 antim., senza aver riposato nella notte, ebbe vicino alla punta (2400 metri) adinamia fisica generale con marcata apatia morale. Potè però compiere il poco che rimaneva di salita e guarì subito nella discesa. Il fratello Luigi crede si sia trattato di mal di montagna. Quest'anno avevamo salito tutti assieme altre due punte della Valle Vigezzo di pochi metri più alte del Grindone senza che vi fosse stato il minimo accenno di sofferenza. In nessuna salita avevano i Zoja sperimentato il cattivo tempo con la tormenta. Aggiungo che Raffaello era particolarmente sensibile al freddo.
     " Il secondo fratello Alfonso, diciannovenne, piuttosto esile fino all'età di 17 anni, s'era dopo sviluppato rapidamente. Era un ragazzo ben conformato, magro ma di aspetto robusto, molto agile, con un assieme di ginnasta. Non aveva avuto altra malattia che la scarlattina di cui ho fatto cenno. Da due anni compagno ai fratelli nelle passeggiate alpine, era salito fino ai 2800 metri senza avere mai provato nessun disturbo. Malgrado la magrezza, forse in relazione col rapido sviluppo, mangiava molto e s'era usi a scherzarne sempre fra noi.
    " La sera del 25 settembre, combinata ogni cosa per la gita, verso le 9 e mezzo Raffaello e Alfonso si misero a letto per riposare un paio d'ore. Da più giorni non s'erano fatte salite, e in quella giornata avevano fatto una semplice passeggiata non faticosa. Alla mezzanotte, dopo la solita colazione, si partì con tempo bellissimo. Per quattr'ore e mezzo camminammo quasi al piano, costeggiando il torrente, tutti del solito buon umore, portando lo zaino ben fornito un' ora per ciascuno, come s'era fatto sempre le altre volte. Poi in un'ora e mezzo di salita non faticosa, raggiungemmo l'ultimo Alp o Malga (1200 metri). Erano le 6 antim., e si fece il primo spuntino: pane, ova e cacio bevendo thè. Non avevamo vino con noi, i Zoja erano astemii ed io pure in montagna preferisco thè o caffè. Dopo mezz'ora si riprese la via, e alle 8 eravamo ai piedi della arrampicata, quella che doveva essere la parte divertente della passeggiata. Presi lo zaino, e da quel momento lo tenni sempre io, non che i compagni apparissero stanchi, ma per evitar loro il senso di squilibrio che esso dà nell'arrampicata, e rendere questa più sicura. La salita fu quasi una delusione, certo non più difficile delle altre fatte assieme quell'anno, e trovammo che non metteva conto di andare così lontano per così poco. Il tempo era sempre bello, con poche nubi sulle catene più lontane, da Nord soffiava una leggera brezza non sgradevole. Verso le 11 a un tratto una folata di vento ci avvolse in una nebbia trasparente e cominciò a cadere interrottamente una fina gragnuola. Un capriccio di vento clic durò forse meno di 15 minuti, dopo il quale tornò a splendere il sole. Noi, già vicini al sommo, non vi badammo, e poco prima di mezzogiorno eravamo sul crestone terminale delle Roccie di Gridone (m.2100 circa). La salita si poteva. dire fatta, e sedemmo tranquillamente per far colazione e goderci il panorama. Sapevamo di dover solo superare tre spuntoni poco più alti della cresta, di percorso facile, per arrivare al sentiero della Bocchetta di Fornale e alle malghe sottostanti di Val Cannobina, un cammino di quattro ore al più. Mangiammo tutti tre, ma non saprei dire ora se i Zoja mangiassero meno del solito. Certo erano del solito umore, non mi erano parsi stanchi neppure nell'ultimo tratto di salita, ed io non ebbi fino allora il più piccolo sospetto che fossero in condizioni anormali. Le è noto come si levasse improvviso un temporale dal Nord mentre eravamo seduti, senza che avessimo tempo di renderci conto che il tempo cambiava. In meno di dieci minuti fummo avvolti da una nube densa che ci toglieva la vista a pochi metri di distanza, e cominciò a nevicare fittamente, a grosse falde, che imbiancarono rapidamente la roccia, e dopo un quarto d'ora l'avevano ricoperta di quasi un palmo di neve. Il vento, fattosi forte, sbatteva furiosamente il nevischio, tormenta per me affatto nuova a quell'altezza, certo, dato il sito, di una violenza eccezionale. A nessuno di noi venne in mente di ridiscendere la ripida parete per la quale eravamo saliti: ripresi lo zaino e ci avviammo. Subito ai primi passi notai che s'andava adagio, che i miei compagni avevano il passo incerto e malsicuro: pensai che fosse l'effetto del vento che rende malagevole il percorso delle creste a chi non vi è abituato, e consigliai a Raffaello che mi seguiva primo di camminare carponi se non si sentiva sicuro. Allora badavo più che a loro, alla corda, per non lasciarli scivolare. Dopo neppure mezz'ora Raffaello mi domandò di fermarsi un po' perchè il vento gli troncava il fiato. Allora mi accorsi che stavano male tutti e due, e che la marcia stentata non era solo l'effetto dell' impressione morale del temporale. Erano pallidi, battevano i denti, accusavano nausea e un po' di mal di capo, erano apatici, muti ai miei scherzi e alle mie sollecitazioni, con passo e movimenti fiacchi, senza energia, non dicevano di aver paura, ma di essere stanchi, e che se li lasciavo riposare un po' avrebbero camminato meglio. Allora cominciò una lunga lotta, cercando io con ogni mezzo di tirarli innanzi, di impedire che si fermassero ogni momento, e il proseguire divenne tormentoso per tutti. Le pareti che divallavano a destra e a sinistra erano ripide, e si doveva camminare uno alla volta per la necessità di sorvegliarli in ogni loro passo. Procedevamo assieme solo nei tratti in cui potevo camminare su un versante facendo procedere loro sull'altro, colla corda a cavallo della cresta.
    " Alle 4 pom. avevo perduto ogni speranza di raggiungere il colle prima di notte. Il tempo continuava a imperversare, avevamo percorso poco più di un terzo di cresta, e, senza prevedere ancora la catastrofe che ci sovrastava, capivo che i miei compagni, malati, in quello stato di inerzia fisica e morale, erano nelle condizioni peggiori per passare una notte nella neve. Allora mi decisi a tentare una discesa diretta per un canalone della parete di Val Cannobina. Avevamo neve oltre il ginocchio, e si scese adagio, i Zoja innanzi, io dietro trattenendoli colla corda perchè scendevano più a scivoloni che con mani e piedi come avrebbe richiesto il sito. In mezz'ora ci abbassammo di un 60 a 70 metri dalla cresta, quando un salto verticale di roccia ci tagliò la via. Mi slegai e per un quarto d'ora cercai un passaggio nel canalone e sulle pareti laterali di esso, ma inutilmente; non si poteva scendere neppure a voler fare un'imprudenza, e si doveva tornare sulla cresta: il canale era ripido, e se i miei compagni camminavano a stento ora, sarebbe stato peggio dopo la notte che ci aspettava. Cedendo alle mie insistenze tentarono di mangiare qualche cosa, ma la nausea faceva loro sputare i bocconi mezzo masticati: bevvero un sorso di thè, e molto a malincuore ripresero la salita. Durò poco più di un' ora, ma in quelle condizioni parve eterna. Ricalcammo la cresta a notte fatta (6 pom), in un punto alto circa 2100 metri. In pochi minuti trovai uno spiano di roccia largo un paio di m. q., un po' sotto la cresta, riparato dal vento, ma non dalla neve, e ci fermammo. Ai Zoja si leggeva in viso evidente la soddisfazione di non dover più camminare.
    " Raffaello m'inquietò subito, era seduto, inerte, cogli occhi aperti e un po' fissi. Non tremava, né batteva i denti come me e Alfonso, non parlava se non interrogato, diceva che ora stava bene, che non aveva più freddo. Respirava regolarmente e aveva il polso un po' rapido, piuttosto piccolo, ritmico e moderatamente depressibile. Alfonso appariva stanco, apatico anche lui, ma evidentemente non era nelle condizioni di esaurimento del fratello. Bevvero il po' di thè che rimaneva. I fiammiferi ci s' erano inumiditi in tasca, e non potemmo accendere la lanterna, né servirci della macchina per il caffè. — Tentai di nuovo, ma inutilmente di far loro mangiare qualche cosa. Quasi subito cominciammo il massaggio a Raffaello, Alfonso agli arti e io al tronco, forzandolo a parlare perchè non s'addormentasse. Continuava a nevicare colla stessa violenza, e ogni tanto Alfonso ed io scuotevamo la neve dalle spalle: dovevamo avere 1-2 gradi sopra zero. Raffaello peggiorava poco a poco, insensibilmente: me ne accorgevo dalle risposte che venivano tarde, dalla necessità di ripetere più volte le domande; il polso si faceva più frequente. A un certo momento, dopo che gli ebbi ripetuto una domanda parecchie volte, gridando, mi guardò in viso con un'aria stralunata e disse adagio: " Non capisco „. Allora ripresi il massaggio con neve, praticando frizioni energiche sul petto e sul dorso. Ogni tanto Alfonso ed io ci si fermava qualche minuto, stanchissimi. Io badavo poco a lui, batteva sempre i denti dal freddo, e parlava poco: pareva perfettamente cosciente, ma non si accorgeva della gravità dello stato del fratello. A mezzanotte, colla stessa rapidità colla quale era insorto, il temporale si dileguò e in pochi minuti rivedemmo il cielo stellato e la luna splendida. Cominciò subito a gelare, e credo che la temperatura fosse piuttosto bassa dalla rapidità colla quale si formavano stalattiti di ghiaccio sulla roccia. Avevamo forse 6-7 gradi di freddo, ma è difficile rendersene conto esatto così bagnati e stanchi, in mezzo a neve ghiacciata. Dopo poco Alfonso notò che il fratello non rispondeva più affatto alle domande, gli dissi che era il sonno e che continuasse il massaggio forte. Serviva a poco, oramai, sugli arti, ma era un mezzo per tener desto Alfonso, dandogli una reazione contro il freddo. Oramai credo vi fosse incoscienza completa; aveva polso filiforme, rapido, respiro ancora regolare, nessun sussulto: sollevando un braccio ricadeva come in paralisi flaccida, nessuna reazione agli stimoli esterni, sguardo fisso, quasi vitreo. Cominciò a dire qualche parola senza senso, pronunziata a mala pena, in un delirio tranquillo che durò poco, Verso l'una mi parve che il respiro si rallentasse, facendosi meno regolare. Allora lo coricammo sul dorso (era stato sempre seduto appoggiato alla roccia, per essere più riparato dalla neve), e cominciammo la respirazione artificiale continuando le frizioni sul torace. Alfonso taceva e io non osavo guardarlo in faccia — ma non capiva ancora.... Si durò così un' altr'ora. A un tratto sentii la pelle del malato coprirsi di sudore, e quasi subito il rilasciamento completo della morte: il cuore s'era fermato prima, dopo potei ancora sentire il torace sollevarsi in inspirazione attiva. Erano le 2 antimeridiane.
    " Alfonso non se n' era accorto e fece ancora qualche movimento di respirazione artificiale. Poi sentì le braccia del fratello irrigidirsi nelle sue mani e le lasciò domandando subito esterrefatto ." È morto?„ Chinai il capo, e cominciò a piangere silenziosamente, senza singhiozzi, ripetendo ogni tanto ''Povero Jello! „ Rimisi a stento il corpo già rigido contro la roccia, riparato in parte da un piccolo vano e cercai di vincere 1' amarezza angosciosa dell'animo per pensare al superstite. Coll'immobilità aveva sentito subito acutamente il freddo, e si accoccolava contro di me che gli facevo percussioni e frizioni al tronco. Non lo potevo decidere a nessun movimento attivo. Non aveva coscienza seguita e completa. A intervalli ripeteva il nome del fratello piangendo, senza però quello strazio nel dolore che avrebbe provato in condizioni normali. Piangeva quasi come un bambino, rassegnato, era più un lamento che una disperazione. Poi lo riprendeva il senso del freddo, tremava, e si premeva contro di me dicendomi di continuare le frizioni. La luna rischiarava tutto di una luce brillantissima, mancavano più di tre ore al giorno, e pensai di sfuggire la vista angosciosa del cadavere e il freddo riprendendo la via, anche lentissimamente, ma non mi fu possibile far stare Alfonso in piedi. Tentando di alzarsi sorretto da me, le gambe gli si piegavano sotto come paralizzate. E mi rassegnai a riprendere la lunga attesa inerte. Non ero molto inquieto: lo vedevo stanchissimo, coll'inerzia morale del mal di montagna, mezzo istupidito dalla disgrazia atroce, intirizzito dal freddo, ma speravo che fra poche ore il giorno e il tepore del sole gli avrebbero permesso di muoversi di là: dopo, passo passo avremmo raggiunto il sentiero che era la salvezza. Alle 6 incominciò ad albeggiare, ma l'Alfonso era sempre nelle stesse condizioni. Allora come ultimo tentativo spazzai alla meglio la neve da un tratto eli roccia, lo feci coricare e gli dissi di provare a dormire un po'. Coll'alba rincrudiva il freddo, ed io mi distesi sopra di lui sorvegliandolo attentamente. Si addormentò quasi sùbito d' un sonno normale, non soporoso, ma abbastanza profondo, malgrado la posizione incomoda e l' ostacolo che il mio peso gli faceva al respiro. Dormì quasi un'ora, e si svegliò da sé verso le 7, a giorno fatto. Ottenni che mangiasse due ova, e alle 7 30 potè mettersi in piedi e partimmo. Camminava come un ubbriaco, scivolando a tutti i passi, io stesso non ero molto franco sulle gambe, ma rapidamente col moto riprendevo elasticità e sicurezza. Alfonso invece pareva sempre sfinito, e non m'accorgevo che la temperatura mite migliorasse le sue condizioni. Dovetti concedere fermate ogni pochi minuti, e queste si allungavano sempre più, cosicché in due ore facemmo la strada che si sarebbe percorsa normalmente in un quarto d'ora o poco più. Eravamo al piede, appena un 20 metri sotto l'ultimo spuntone che ci separava dal colle, e Alfonso era seduto da parecchi minuti, e resisteva alle mie preghiere perdio facesse un ultimo sforzo. Batteva di nuovo i denti: per un po' rispose alle mie insistenze dicendo di lasciarlo riposare ancora, poi non parlò quasi più, sebbene capisse quello che gli dicevo, si sentiva stanco, nient'altro. Sedetti vicino a lui, e gli parlai del fratello, cercando di scuoterlo da quell'inerzia. Mi disse " quando saremo a Finero (grossa borgata di Val Cannobina), telegraferemo a Gigi e lo aspetterò per tornare a casa con lui„ ; frase che dice meglio di qualunque descrizione l' incoscienza completa del proprio stato. Io ero inquieto, cominciava il ritardo nelle risposte, era evidente un accasciamento fisico grave, lo vedevo così esaurito che non sapevo come avrebbe potuto resistere altre due ore. Ricominciai le insistenze per muoverlo di là e m'accorsi presto con angoscia che non lo poteva più. Non mi restava che un appiglio, farlo scivolare in basso per uno stretto camino di roccia pieno di neve con un pendìo ripidissimo, che divallava a due passi da noi. Ottenni da lui, ancora cosciente, che si trascinasse fin là, aiutato da me, e cominciai a lasciarlo scivolare seduto nella neve, dicendogli di trattenersi il più che poteva colle braccia. Quando non ebbi più corda (eravamo legati a circa cinque metri di distanza), mi misi io pure nello stretto canale. L'avevo di peso alla cintura, poiché mi occorrevano le due mani per trattenere me e lui servendomi degli appigli rocciosi, fortunatamente solidi e abbondanti delle pareti laterali del camino. Scendemmo così con precauzione un 50 metri; a un tratto io, che in quel momento scendevo di fianco, sentii mancare la tensione della corda e volgendomi vidi Alfonso carponi, quasi coricato, che annaspava colle mani nella neve. Lo chiamai senza risultato, mi slegai fissando il capo della corda a uno spuntone di roccia, e scesi rapidamente fino a lui. Era inconscio, con respiro lento, polso piccolo e rapido. Dovevano essere le 10 antimeridiane. Gli feci il massaggio con neve, mezzo istupidito dalla fatalità che s'era legata a noi. Dopo circa un'ora mori tranquillamente, senza scosse, con un rallentarsi progressivo del respiro, mentre il polso si faceva più piccolo e rapido. Mi sentivo esausto, e risalii quasi subito fino alla cresta donde in mezz'ora raggiunsi il sentiero. „
    Fino a che durerà la fisiologia della fatica saranno ricordate queste pagine del dottor De Filippi, perchè nella storia delle Alpi vi sono pochi avvenimenti più tragici. Fra le relazioni che scrissero gli alpinisti, poche eguagliano questa per la sagacia e il sangue freddo che traspare dalla profonda e fedele sua osservazione dei fatti, nessuna supera questa per la novità di una sventura quasi sovraumana,
    Il meccanismo della morte improvvisa è forse una delle parti meno conosciute nella patologia, perchè spesso non è possibile per riguardi alla famiglia di fare l'autopsia in questi casi disgraziati. Alcune infiammazioni parziali del muscolo cardiaco passano inavvertite. I tendini ed i muscoli che vanno al bordo delle valvole nel cuore si alterano senza che ce ne accorgiamo perchè sono insensibili, e poi improvvisamente si rompono, in uno sforzo, od in una emozione grave e ne segue la morte.
    Assai più spesso come in questo caso è la paralisi del cuore la quale produce improvvisamente effetti mortali. Tutti sappiamo che il cuore batte più forte e più rapido quando ci coglie una forte emozione. Vi sono di quelli che neh' abbattimento di una grande sventura sentono una oppressione come se loro mancasse il fiato. Il sospiro è una inspirazione profonda che noi facciamo nel dolore per rimediare alla respirazione difettosa e insufficiente. Quando mettiamo degli animali sotto una campana pneumatica e rarefacciamo 1' aria cadono sonnolenti, e mentre dormono di quando in quando fanno delle respirazioni più profonde. Ho già detto come durante il mio soggiorno nella Capanna Regina Margherita, ho veduto che alcune persone e un cane sospiravano profondamente tutto il giorno.
   Vi sono delle donne che spesso svengono per la semplice notizia o la vista di un accidente, per un rumore inaspettato. È probabile che anche in questi casi il cuore sia paralizzato per un difetto di innervazione centrale, dovuto al rapido esaurimento che l'emozione ha prodotto nei centri nervosi.
   Che le emozioni rendano più debole il cuore, me ne accorsi in un lutto domestico, per me gravissimo, che mi ha colpito in questi ultimi anni. Salendo le scale della mia casa, sentii per la prima volta che ero obbligato a rallentare il passo od a fermarmi perchè mi mancava il fiato. Il polso era affrettato, e sentivo la palpitazione del cuore. Era un fenomeno come capita spesso nel male di montagna. Il cuore, per 1' esaurimento centrale prodotto dall'emozione, o dalla fatica, non si contrae più completamente, e rimanendo alquanto dilatato, la circolazione nei polmoni si fa più languida e lo scambio dei gas nei polmoni diviene insufficiente. Questa è la causa prima della respirazione affannosa, il cuore batte più frequente per compensare le sue contrazioni che non sono più complete. Quando il difetto della innervazione del cuore diviene più grave, succede la, paralisi del cuore che è sempre seguita dalla morte immediata.
    Così si spiega come i vecchi e le persone deboli possano qualche volta soccombere per effetto di una emozione psichica: cosi forse avvenne la morte di Alfonso Zoja.
   Le emozioni profonde e gli effetti della fatica sono più temibili se la temperatura esterna, è bassa, e divengono mortali quando per la depressione del cervello e del midollo sono paralizzate le funzioni dei centri che regolano la temperatura del corpo e la tonicità dei vasi sanguigni.
   Gli ubbriachi muoiono assai più facilmente per freddo che non le altre persone. Questo anzi è il meccanismo col quale si spiega la morte di coloro che riuscirono a suicidarsi coll'alcool o coll'assenzio, perchè da soli i liquidi alcoolici non produrrebbero la morte. Ma i vasi paralizzati si dilatano, e il sangue raffreddandosi non trova più attivi nell'interno dell'organismo i congegni automatici che attizzano i processi della vita e rinforzano le combustioni nei tessuti appena il sangue si raffredda. L'individuo perde poco per volta il suo calore fino a che si spegne la coscienza, e dopo arrestandosi il cuore ed il respiro ne succede la morte.
   Il dottor F. De Filippi nell'ultima parte della lettera mi scrisse alcuni concetti per spiegare la morte dei fratelli Zoja che io divido pienamente. "Forse il fatto dominante fu un indebolirsi progressivo del cuore ed una paralisi vasomotoria. Certo è una forma che non si può far rientrare completamente in nessuno dei quadri morbosi classici descritti. È anche possibile che si tratti di una vera intossicazione dai veleni della fatica, e che questo fattore intervenga in tutte le morti per esaurimento da grave strapazzo muscolare. Forse individui con ricambio pigro, organismi che abbiano combustioni incomplete e tarda eliminazione dei prodotti retrogradi, possono essere specialmente predisposti a questa forma di avvelenamento, specialmente se il freddo interviene a limitare ancora l'attività del chimismo organico. I precedenti di Raffaello dimostrano una sensibilità grande del suo sistema nervoso alle intossicazioni : invece Alfonso era apparentemente in condizioni fisiologiche, è possibile che l'emozione provocata dalla morte del fratello sia stata troppo violenta per un organismo stanco, malato da ore di mal di montagna, sottoposto per lungo tempo ad una insolita perdita di calore, che da circa venti ore quasi non aveva più preso alimento. Certo si sono sommati tutti questi fattori. Nella ignoranza in cui siamo sulle modificazioni del ricambio che accompagnano il mal di montagna, non possiamo dire se questo possa favorire l'accumulo nell'organismo dei veleni della fatica, e siamo costretti a vagare nel campo incerto delle ipotesi. „